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Emozioni che si fanno sorso, tra queste ce n’è anche una dall’Anima di Brisighella, e prende il nome di “Cupola” 2016 de La Collina

Oggi ho assaggiato un’emozione.

Rossa, liquida, ma soprattutto autentica.

Parlo di “Cupola” vino prodotto da “La Collina” di Brisighella.

Un vino entusiasmante che parla di cultura enoica, piacere e territorialità.

Tra l’altro prodotto in un’annata, quella degustata, la 2016, che è da cinque stelle.

Cupole 2016 cantina La Collina: l’anima di Brisighella


E’ un blend (Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Merlot), quindi una sintassi internazionale. Ma le basi grammaticali sono autenticamente territoriali, brisighellesi nello specifico. Soprattutto lo spazio nel quale questo racconto sboccia è quello di un girapoggio a strapiombo del Rio Paglia, all’ombra dell’osservatorio astronomico di Monte Romano. Un balcone sulla valle che ne carpisce e interiorizza, dal suolo al clima, le variegate e non sempre facili scorribande.


Una piccola azienda, figlia di passioni svizzere, i proprietari sono Hans-Jörg Liebi e Hanno Taverna, che si districa in “soli” cinque ettari di vigneti. Qui in vigne con età dai venti ai quarant’anni, a conduzione biologica, abbracciate tra calanchi e cielo, nasce anche questo piccolo capolavoro, in terra di Brisighella, figlio e frutto dell’union tra Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Merlot. Da vigne allevate ad alberello che traggono linfa vitale da terreni di marna e arenaria.

Ecco la mia degustazione

Quello di “Cupola 2016” è un sorso veramente appagante.
Brioso ma fiero.
Croccante ma elegante.
Sontuoso ma snello.

Un vino che si ricorda, questo lo diamo per certo, per parecchio tempo.

C’è la giusta dose di sapidità che danza tra speziature fresche, pepate e balsamiche.

C’è l’inevitabile abbraccio setoso, non però estremamente vellutato, dei vitigni internazionali.

C’è la fragranza del frutto e della nota vegetale.

Per non parlare del tannino, che in filigrana, si lascia scovare.
Una complessità dialettica al palato che lascia veramente di stucco.

Un taglio bordolese, ma che non si esaurisce, per fortuna, nella banalità del senso “etimologico-cantinesco” del termine, ma proprio perché riesce a far esprimere un blend che diventa elegante, balsamico, insomma buono. Tre matrici di sorso differenti ma che creano un racconto profondo, verticale, ricco, balsamico, pieno, snello, che lascia un palato d’Appennino rinfrescato ed enfio di piacere.

Una danza in punta di terroir che non diventa mai banale, nemmeno se gli si abbassa notevolmente la temperatura di servizio.

Complimenti, un vino che lo si acquista e lo si può bere oggi, ma che se ce lo si dimentica in cantina per anche una decina anni, sarà sempre lì a sorridervi e volervi bene.

Chapeau!

P.s L’ho accompagnato con orecchiete (fatte a mano provenienti direttamente dal Gargano) e sugo di fungi misti (made in mamma Marilena)… ci stava daddio!

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