Vini delle Coste 2025, qui dove l’Italia del vino racconta una serie identità in calice veramente sbalorditive, basta, però, che si abbassi l’eco da “falegnameria ad ogni costo”.
In una delle città di provincia più belle d’Italia, Lucca, ho avuto la fortuna di poter immergermi, il 30 e 31 marzo, in una manifestazione che ha potenzialità espressive e narrative molto importanti ed efficaci.
Qui ci sono, infatti, giovani vigneron che sanno dove vogliono andare, territori aspri e difficili, che danno corpo a sorsi eroici e poi ci sono interpretazioni internazionaliste che forse scimmiottano troppo cugini più blasonati perdendo un po’ di quel filo tattile della tipicità.
Al Real Collegio di Lucca, altra maestosa chicca architettonica della città, erano presenti i vignaioli delle Colline Lucchesi, Montecarlo e Garfagnana, delle Colline Pisane, del Candia e della Lunigiana. Non sono mancate le espressioni delle province di Lucca, Pisa e Massa a cui sono aggiunte nutriti esempi in bottiglia provenienti dalla provincia di Livorno, Grosseto con una significativa rappresentanza dell’Arcipelago Toscano. Tra gli altri ambasciatori delle Coste d’Italia erano in Toscana anche il terroir Marche con i vignaioli biodinamici, l’Abruzzo e la Liguria. In totale, i vini in degustazione sono stati oltre 300.
Vini delle Coste – afferma l’ideatrice Alessandra Guidi – ha rappresentato un nuovo appuntamento che porta sotto i riflettori i vini nati lungo le coste di tutta Italia. Sono tante le aziende che nel loro terroir godono dell’influenza del mare: centrale è stata la costa toscana, ma anche quella adriatica con le Marche e l’Emilia-Romagna e una piccola rappresentanza della Liguria. Siamo estremamente soddisfatti di aver avuto modo di dare voce a piccole e straordinarie storie italiane, raccontate dalle aziende presenti. Ciò che più ci rende orgogliosi è aver contribuito a rafforzare lo spirito di squadra nel mondo del vino perché solo uniti si può affrontare un momento storico tanto complesso”.
L’iniziativa rappresenta senza ombra di dubbio una finestra aperta su alcuni dei terroir “minori”, meno blasonati e conosciuti forse dal grande pubblico. Aree produttive, però, che non per questo non sanno raccontare un’autenticità d’origine ben precisa e riconoscibile. Non è sempre facile. In alcuni casi l’abbrivio delle grandi denominazioni tende a un’emulazione che vela leggermente la rappresentatività schietta e netta dei terroir altri.
A Vini delle Coste questa ambivalenza, cioè quella di voler o dover entrare in scia con lessici enoici più performanti e al contempo avere la necessità di sprigionare la forza identitaria, non sembra viaggiare su binari paralleli. Diverse sono le sovrapposizioni di queste grammatiche che magari spiazzano e lasciano un attimo disorientato l’enonauta e l’appassionato.
Per carità tutto è lecito e necessario, ma credo che sia più autentico, veritiero e giusto darsi una propria definizione di gusto. Almeno in un momento storico in cui, nel vino, il riflesso di quello che si è e non di quello che altri vorrebbero che fossimo, diventa vincente e azzeccato.
Ci sono stati sorsi che hanno dimostrano come questa uscita dalla traiettoria non solo colpisce ma diventa veramente capace di far scaturire un wow dopo l’assaggio. Detto in parole povere: nella due giorni luchese ancora troppo presente e pressante, per il sottoscritto, è stato il riflesso d’ebanista o ancora più chiaramente di pesantezza del legno che non accompagna o esalta la personalità del vino in assaggio ma ne omologa la personalità.
Tra le decine e decine di assaggi ecco una carrellata di realtà che hanno veramente saputo presentare un racconto autenticamente unico e affascinante.
Una narrazione di freschezza e dinamicità.
Di trasposizione territoriale in liquido.
Tra queste citiamo Maestà della Formica, che coltiva le proprie uve sulle Alpi Apuane, nel comune di Careggine (Lu), a 1050 metri di altitudine, e Villa Santo Stefano di Pieve Santo Stefano. Se nel primo caso è l’essenza slanciata della verticalità e della mineralità la semantica del sorso, nel secondo caso l’approccio bio, molto in voga in lucchesia, permette ai vini di esprimersi in sorsi d’autentico ritratto della terra e del clima.
Da non dimenticare poi il tandem composto da Malgiacca (deus ex machina del Rinascimento enoico in questa terra) e Tenuta I Masi in cui la biodinamica si fa carta copiativa d’essenza di terroir. Succulenza, fragranza, croccantezza e soprattutto eleganza sono le caratteristiche di ogni sorso.
Altra grandissima interprete del suo territorio è stata Tenuta di Montefoscoli (Pi). È stata sicuramente la realtà che più di tutte mi ha colpito. Tre referenze dirette, scattanti, di linguaggio e sorso veramente glocal. Su tutti? Il Valcevoli bianco, un capolavoro prodotto dal blend di Vermentino, Viognier e Petit Manseng che a occhi chiusi darebbe filo da torcere ai bianchi d’Oltralpe più blasonati.
Da segnarsi, per il livornese, PietraNova, una fotografia elegante e “delicata” da Bolgheri, l’Azienda agricola famigliare e schietta di Russo a Suvereto, Tenuta Sterpai in cui la variopinta e caleidoscopica produzione si fa compagnia ideale per la tavola e Dell’Aja, dove la semantica bordolese trae linfa dal terreno limo-sabbioso tipico di Bolgheri.
Infine Diegale che spiazza con il suo blend di Sangiovese – Syrah – Granache (Rossoscuro), che assieme a Fattoria di Magliano (dove troneggia il sorso di Maremma netta e schietta), Poggio Levante (capace di domare i capricci del Sangiovese in modo efficacissimo) e Suveraia (cartolina enoica del Mediterraneo) raccontano un grossetano veramente fine, gustoso ed elegante.