Gelasia è la storia in rosso del Piave. Gelsaia in primis è nome dato alla punta di diamante della offerta vitivinicola della cantina Cecchetto. Lo è perché di fatto rappresenta il “vestito della festa”, indossato negli ultimi trent’anni, dal Raboso. Un vino che a discapito della sua etimologia, che lo voleva e lo vuole “rabbioso e indomito” ha saputo, grazie alle pespicaci mani dei Cecchetto, plasmarsi attorno a un concetto nuovo, a una semantica moderna e a una texture elegante del sorso. Una interpretazione che coniuga, quindi, la capacità espressiva del vitigno, fatta in primis di acidità, tannino e iper frutto, con il rispetto e la interpretazione personale del vigneron. Non solo. Qui c’è chiaro ed evidente soprattutto l’imprinting dato dalle vigne dal quale esce, in questi ultimi anni si parla di tralci la cui origine risale anche a sessant’anni fa, che ne plasmano una definizione che è al contempo territoriale, personale e soprattutto elegante.
Siamo a Tezze di Piave (Tv) e dal 1994 e per sole tredici annate, prima Giorgio Cecchetto e oggi la famiglia, portano avanti, solo quando l’annata lo permette e lo conferma per quanto concerne la qualità espressiva delle uve, un racconto di questa particolare, tradizionale ed espressiva storia vitivinicola. Stiamo parlando da un vino nato da uve Raboso del Piave, che già dal nome evoca il rispetto nei confronti della storia e della tradizione di queste genti e di queste terre. Il Gelsaia, infatti, deriva da Gelsi, piante da sempre presenti nel territorio trevigiano, che nella storica forma di allevamento a Bellussera sono utilizzate come tutori vivi della vite. La borgognotta, bottiglia memore di antiche tradizioni in cui dimora Gelsaia, custodisce fin da subito la sfida iniziata nel 1994 da Giorgio Cecchetto e che dal 2013 ha acquistato un quid in più, quello di essere prodotta da vigne veramente agée…
Avendo avuto la fortuna di poter effettuare una verticale in casa Cecchetto adesso andiamo a raccontarne l’essenza carpita. Una digressione in punta di calice che ha messo in evidenza le differenze non solo stilistiche ma anche di imprinting materico e produttivo del sorso date dal cambiamento e dall’affinamento sempre più accorto, portato avanti in primis da figlio Marco nonché responsabile, oggi, della cantina, a questo alfiere della vitivincoltura territoriale.
Dopo una serie precedente di interpretazioni e “sperimentazioni” che aiutano ad aggiustare il tiro, questa è l’annata in cui entra a regime la doppia maturazione ragionata. Una tecnica che consiste nel taglio in pianta, a maturazione avvenuta, dei capi a frutto, per favorire un naturale appassimento di circa 15 giorni del 30% delle uve di Raboso Piave, mentre un altro 30% viene appassito in fruttaio per 40 giorni. La tecnica in cantina prevede il vino affinato in legno, grande e piccolo, nuovo e usato, per 18 mesi. La degustazione già allo sguardo, preannuncia una sorta di inizio di decadimento verso una fase finale del vino. Nel calice questo più che ventennale progetto appare in fase ormai discendente. Partendo dal colore mattonato, è nel naso che spunta la fotografia di un vino che già si avvia alla fase del tramonto. E’ un tripudio di sottobosco materico, con nuance terziari bagnati e umidi (tabacco, fungo porcino), che si rialzano grazie alla sferzata agrumata ancora presente. Il sorso è un sussulto di vivavcità iniziale, sorretta dall’acidità, che si adagia su una tannicità accomodata e morbida.
Nel 2009 questa semantica del Raboso si fregia, a ragion veduta della Docg Piave Malanotte. Un andamento meteorologico segnato da piovosità invernale seguita da una primavera instabile, calda e soleggiata, e da un’estate caldo-umida. Grazie all’assenza di piovosità dalla metà del mese di luglio, lo stato sanitario delle uve alla vendemmia è stato ottimo. Inoltre grazie al soleggiamento da fine luglio a tutto agosto, l’escursione termica e le basse temperature notturne avute nei primi giorni di settembre hanno permesso ai grappoli di avere ottimi parametri di estratto e di colore. Ne esce così forse il più boteriano tra i sorsi di questa verticale. Un vino che ancora oggi presenta un caratterefruttoso, con tannini presenti e acidità spiccate. C’è tanto frutto, nero, maturo ma croccante. C’è una nota balsamica e agrumata che rinfresca e alleggerisce un po’ una silhouette che rimane comunque piena e carnosa.
Il Raboso, essendo la varietà a bacca rossa con raccolta tardiva, ha beneficiato più delle altre uve degli abbassamenti termici di fine settembre e dei primi di ottobre. Ciò ha comportato un notevole accumulo di antociani e di sostanze aromatiche nelle bucce e, soprattutto, la coincidenza delle maturazioni fenolica e tecnologica, un sincronismo che non si vedeva da anni. Gli effetti sono di un sorso veramente entusiasmante. Vivo, vibrante, elegante e dal pathos veramente sensuale. C’è una freschezza educata che spazia dal chinotto a echi di mineralità (ferroso-ematico) spazianti in alcuni casi che virano verso l’etereo e sorreggono ed equilibrano un tannino che è ancora balsamico. C’è frutto, carnoso, c’è agrume, sanguinella, ma c’è anche una officinalitá diffusa che lo rendono veramente un vino complesso ed entusiasmante. Un vino che per chi ha la fortuna di possederne una bottiglia in cantina avrà piacevolissime sorprese anche in futuro.
Nel 2017 una straordinaria gelata avvenuta ad aprile ha danneggiato e ridotto il numero delle gemme, portando a una scarsa produzione d’uva. Tuttavia, il successivo decorso estivo/autunnale è stato eccezionale per il Raboso, determinando un’elevata gradazione zuccherina. «Nonostante il residuo zuccherino fosse superiore a quello consentito dal disciplinare della denominazione Piave Malanotte Docg – affermano dalla cantina trevigiana – abbiamo scelto di rispettare l’annata e l’integrità del vino non intervenendo sugli zuccheri. Quest’annata, infatti, esce senza la denominazione». Ed è forse la vera sferzata al diapason della continuità che si stava ricercando. Una vibrazione che riporta un attimo indietro l’eleganza e la complessità raggiunta nel 2011 e, come vedremo, nella 2020, ma che comunque fa onore ai Cecchetto. Fa onore perché la sapiente calibratura effettuata tra tannino, acidità, residuo zuccherino viene perfettamente riequilibrata da un tenace balsamicità e da una presenza del frutto che non è comunque tendente alla confettura, ma alla piena maturità. Sicuramente non la più entusiasmante versione assaggiata, echeggia in lontananza la vicina Valpolicella, ma comunque lodevole capacità di trasparenza e filologia enoica della cantina.
Qui siamo veramente alla svolta contemporanea. Un sorso che è ancora giovane ma già inquadrato nelle sue dimensioni di eleganza, complessità e durata nel tempo. Partendo in vigna e arrivando in cantina la famiglia Cecchetto qui ha messo le nuova fondamenta per un grammatica del Raboso da invecchiamento che promette non solo bene ma già oggi si presenta con una silhouette che sa coniugare le variabili del tempo e della complessità degustativa. Forse anche dovuto a una annata da quattro/cinque stelle per questo territorio, l’interpretazione temporale rappresenta al sorso l’idea di cosa possa diventare il Gelsaia: un fine wine da uve della tradizione. Non ci sono più rappresentazioni in carta copiativa di “cugini” lontani figli dell’appassimento, anche perché il trend e la prospettiva porterà sempre di più il Gelsaia ad averne percentuali sempre calanti (si arriverà a non averle più?). Il sorso è complessità in evoluzione allo stato embrionale. Un vino sicuramente giovane, oggi, ma che sa giocare su verticalità e rotondità del sorso grazie alle rinfrescanti note balsamiche unite a croccanti note di frutta rossa. Un gran sorso che saprà stupire anche tra diversi lustri…